martedì 17 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte VI)


"A emergere in primo piano è la dimensione socio-politica - tutti i sette sapienti furono anzitutto legislatori comunitari -, nella forma di un'etica che prescrive il 'limite' come norma sociale per evitare i due mali complementari della ricchezza illimitata e dell'illimitata povertà come fonti di dissoluzione della comunità.", M.M.p.97

"Occorre accomiatarsi dall'idea che la filosofia greca sia sorta da una semplice quanto astratta 'meraviglia' [...], per mostrare come, al contrario, essa si configuri come la risposta a problemi di ordine sociale e politico, secondo quanto variamente sostenuto da una costellazione di autori [...]", p.95; "[...]Da questo punto di vista, come subito chiariremo, risulterà decisivo il problema del métron e della metafisica ad esso connessa, nel quadro concreto - socio-politico - della pòlis.", M.M.p.95; 

"Nella formulazione del concetto di métron come regola direttiva della condotta umana in ogni sua determinazione può con diritto essere ravvisato il gesto originario della filosofia.", p.96. 
 Sono a malapena nove paginette a comporre il secondo paragrafo del capitolo 2 di Minima Mercatalia (indice dell'opera consultabile, http://www.filosofico.net/filosss.html): nove paginette talmente dense di contenuti, che le citazioni sopra riportate ne rappresentano, per dare un'idea, una parte su cento. 
Ancora una volta, come sempre in questa lettura, cerchiamo di soffermarci "a caldo" su aspetti che sollecitino una prima riflessione. Non staremo perciò, per quanto potrebbe essere interessante, a richiamare il "sommario" del paragrafo, limitandoci a ricordare che avvia il "viaggio" nella storia (rivisitata) della filosofia greca, con specifici riferimenti, nelle pagine interessate, alle figure di Talete, Chilone di Sparta, Anassimandro.
Due aspetti principali mi colpiscono a rileggere le citazioni proposte. 
In primo luogo, ritorna puntualmente, ed in linea con il paragrafo precedente, il tema del "métron", della misura e del limite, che fa da filo conduttore per tutta l'opera. 
In secondo luogo,  di nuovo rilevo (vedi intervento IV, paragrafo conclusivo) come termini quali "norma" (p.97), "regola direttiva" (p.96), il riferimento ai "sette sapienti" come "legislatori comunitari" (p.97), evidenzino il tema di spicco della normatività in connessione con il discorso trattato, specie in rapporto alla questione di una "risposta a problemi di ordine sociale e politico" (p.95).
Non stupisca lo "spessore" di questi contenuti,  davvero piccolissima parte di quanto si può trovare leggendo anche solo questo semplice paragrafo 2.2 di Minima Mercatalia. 
Il tema della misura è qui richiamato di nuovo attraverso i termini della misura e del limite. Misura e limite ricorrono per riferirsi, come già rilevato, non a qualcosa di astratto, ad un principio di misurazione astratta, bensì, in linea con il nucleo di senso essenziale che pone in strettissima relazione la misura con l'essere umano, a ciò che riguarda per l'appunto l'uomo nella sua dimensione sociale. Si tratta dunque di considerare il concetto di misura in riferimento costante al "quadro concreto - socio-politico - della pòlis" (p.95). 
La "dimensione socio-politica" va qui correttamente associata sia a ciò che abitualmente si ascrive ad una dimensione politico-giuridica, quella dell'attività del "legislatore", sia a ciò che abitualmente si ascrive ad una dimensione "etica". Ben lungi dunque dal porre come branche separate tali aree di svolgimento per un concreto pensiero teorico orientato alla prassi, Fusaro tratta qui il tema evocando il "limite" come "norma sociale". L'attenzione si pone ad un aspetto molto specifico come campo di interesse principale per l'esercizio normativo volto alla ricerca della giusta misura: si tratta del campo della ricchezza, in senso materiale, e del problema di evitare tanto l'arricchimento oltre misura, quanto l'impoverimento al di sotto della misura conveniente: "evitare i due mali complementari della ricchezza illimitata e dell'illimitata povertà come fonti di dissoluzione della comunità" (p.97). Questa espressione, circa i due mali complementari della ricchezza illimitata e dell'illimitata povertà, può già far venire in mente a qualcuno quello che potrà essere in un certo senso il "finale a sorpresa" (sorpresa per così dire parziale) del capitolo, al termine dell'ultimo dei cinque paragrafi (occorrerà qui aspettare ancora tre uscite... o correre avanti nel libro!). Ciò che per ora va notato, per riportare ancora una volta l'attenzione alla banalità rassicurante/inquietante della quotidianità cronachistico-mediatica, è come questa espressione faccia riflettere secondo una prospettiva non banale circa i rilievi e per così dire i proclami concernenti lo squilibrio tra le distribuzioni e concentrazioni di beni materiali tra la popolazione (mondiale, italiana, europea...): statistiche che sembrano scoprire l'acqua calda e divulgare i segreti da Pulcinella del fatto che si stimi che il 10% della popolazione detenga il 90% delle ricchezze di un'area geografica e così via. Questi squilibri che destano scandalo, senza tuttavia smuovere le coscienze, debitamente e  placidamente narcotizzate in via preventiva, non sono l'effetto temporaneo, sorprendente ed eccezionale di una "crisi" (quantomeno strana per la sua cronicità, tra l'altro) sconvolgentemente nuova: si tratta forse di criticità, ma tali da dare evidenza a ciò che, nient'affatto nuovo, costituisce una tra le più profonde e radicali questioni a carattere essenzialmente sociale, politico, comunitario, giuridico, etico ed umano - solo per indicare alcuni ambiti interessati. 
Se questo problema non è niente di nuovo, d'altra parte, in un certo senso è nuova la prospettiva comune secondo la quale sembra guardarsi ad esso. In primo luogo, non si guarda ad esso come a qualcosa di antico (o senza-tempo?), bensì ci si ostina a considerarlo a livello generalizzato come qualcosa di nuovo, sconosciuto e pertanto paralizzante, fatale e ingestibile. In secondo luogo, strettamente contiguo al precedente, non si guarda ad esso come a qualcosa che possa essere preso in considerazione in senso valutativo (che cosa posso fare, io, in questa situazione? Quale atteggiamento e quali azioni conviene adottare? Che cosa conviene che si faccia, che facciamo, io-tu-egli-noi-voi-essi? Foss'anche solo dire "I would prefer not to", a patto di guardarsi dall'agire implicitamente connivente, e in fondo in malafede?): ci si ostina, o ci si rassegna, all'idea che non ci sia niente da fare (aspettare che passi), con ciò intendendo non che non ci sia niente da fare per un certo tipo di problema, e che eventualmente se ne possano almeno risolvere altri, bensì che qualunque problema sia in quanto tale irrisolvibile per effetto della catastrofe universale in atto. 
I due senza-limite evocati, come arricchimento illimitato da una parte, come impoverimento illimitato dall'altra, cominciano a portarci "dentro" l'idea della dinamica dialettica che sarà oggetto di trattazione per i capitoli successivi del libro. Poiché è tra questi estremi in rapporto antitetico, e sulla reciproca tensione tra essi, che si gioca la partita quotidiana dell'esercizio per una giusta misura, è esatto procedere, come in Minima Mercatalia, premettendo la trattazione di ciò che questo giusto medio, in senso rigoroso e non banale, stia a significare. 
Una giusta mediazione si declina secondo la regola della giusta misura, giocata nel métron secondo il rispetto verso il péras, il limite. Il senso di questa misura, non in astratto, ma in concreto, si articola in stretta relazione con ciò che può costituire un nesso tra estremi in tensione reciproca. Così come non si coglie tale nesso senza cominciare a considerare i termini tra i quali esso si instaura, pure anche non si colgono i termini estremi senza iniziare a prendere in considerazione il nesso che li raccorda. Ancora una volta, ciò che oppone, separa, due contrapposti, insieme pure è ciò che li fa parte di un discorso che li riguardi entrambi. Li oppone, li separa: e così li tiene insieme
Niente di facile da capire, qui. Eppure niente di complicato, ancorché complicata ne risulti l'espressione da parte di chi non sappia ancora darne una resa più limpida, più limata. 
Molto di più accorre qui in aiuto Fusaro: il suo lavoro si dipana, via via, senza allontanarsi da questo tipo di vera considerazione, dialettica e reale. 
Ciò che tengo dunque a cogliere, in questi passaggi nella lettura, è il carattere di una misura in relazione con la tensione tra due illimitati, mali "complementari". Qualcosa di "bene", non è l'opposto ad un male: piuttosto, ha a che fare con un punto di equidistanza per così dire "centrale", "centrico", capace di tenersi ugualmente distante da più mali tra essi contrapposti
Ma questo discorso, qui, eccede la misura. 
L'ultima tra le citazioni sopra ("Nella formulazione del concetto di métron come regola direttiva della condotta umana in ogni sua determinazione può con diritto essere ravvisato il gesto originario della filosofia.", p.96. ) ci permette di concludere in chiave di parziale sommario del discorso. Non è qui il caso di riprendere analiticamente il passo come meriterebbe. Si tratta invece di richiamare il concetto di misura, di métron; richiamare la relazione di esso con una concezione normativa di regola; ribadire, tramite il riferimento alla "condotta umana", la dimensione etica a partire dalla centralità dell'"uomo", in una considerazione associata, comunitario-sociale, come senso del politico. Tutto ciò, come "gesto originario della filosofia", ha da ultimo a che fare con il carattere di qualcosa che si de-termina
E - per adesso - rischia di diventare veramente troppo. Se non per altro, almeno per osservare il monito del niente di troppo di Chilone (cfr. Minima Mercatalia, p.96), rimando ogni altra considerazione al prosieguo. Buona lettura, di queste pagine, e, soprattutto, di Minima Mercatalia. 
       

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