lunedì 16 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte V)


"Il mondo greco presentava, come tratto saliente, la produzione finalizzata al consumo e, più in generale, al soddisfacimento di bisogni umani, per loro natura finiti e limitati", p.91;


"Le citazioni di Hegel e di Marx, sia pure da punti di vista eterogenei, segnalano il métron [*in greco nell'originale] e la centralità dell'uomo con i suoi bisogni finiti come fulcro del mondo dei Greci.", p. 89;
Due citazioni molto brevi, per iniziare la lettura del secondo capitolo di Minima Mercatalia. 
Ricordo subito come utile lettura introduttiva l'articolo di Costanzo Preve sulla dialettica dell'illimitatezza:
 E' proprio dal discorso di Preve che Fusaro trae i primi spunti, come già si è osservato (parte IV di questa lettura), per articolare lo studio dialettico del capitalismo, nelle sue tre fasi. In esse si articola una "dialettica dell'illimitatezza", che si contrappone in quanto tale alla "metafisica greca del limite" a cui Fusaro dedica in Minima Mercatalia questo secondo capitolo (l'indice del libro è consultabile, http://www.filosofico.net/filosss.html). 
Come Fusaro ha già chiarito (MM, p.69), l'illimitatezza "è il rovesciamento dell'esorcizzazione precapitalistica", rappresentata al massimo grado dalla "cultura greca", contro ogni forma di superamento del giusto limite, dell'eccesso oltre la giusta misura (il métron [*in greco nell'originale]). 
Per la trattazione che si propone Fusaro in Minima Mercatalia  è dunque indispensabile ricorrere alla preliminare esposizione di ciò che tale lettura della "metafisica greca del limite" e della misura significhi e comporti: chiarisce dunque ancora Fusaro che "il presente capitolo ci costringerà a un détour", un rivolgimento temporaneo di rotta, per poter far tappa nella Grecia antica, laddove questa storia trae, per così dire, una propria origine. 
Il capitolo percorrerà dunque la storia della filosofia greca secondo un taglio che in parte potrà ricordare, per chi abbia avuto occasione di praticarla, la "storia della filosofia" al primo anno del corso delle scuole superiori. Si tratta però anche di rileggere queste nozioni più o meno note secondo una prospettiva probabilmente diversa da quella che lì per lì potremmo aver incontrato. Parmenide, Aristotele, Socrate, Pitagora; Platone; i "presocratici", o pensatori arcaici (cfr. MM, p. 92), i nomoteti della Grecia antica e classica sono dunque richiamati via via nella lettura che Fusaro ne offre, mettendone in evidenza non solo le caratteristiche congrue con il discorso che traccia, ma anche le incongruenze tra questo tipo di lettura, che li allaccia in un discorso comune, e altre letture forse più diffuse e tuttavia quantomeno in apparenza carenti di coesione in un quadro complessivo.
Si tratta di una lettura improntata alla considerazione che "il cosmo degli antichi Greci [...] si configurò come una totalità espressiva all'insegna della metafisica del métron  e del péras", p.88: una metafisica della misura e del limite, nel senso che tutto il capitolo va a specificare.   
Ecco che si giunge così ad una qualche minima contestualizzazione delle citazioni proposte qui in epigrafe.  Il pensiero espresso si pone in chiara relazione con il pensiero hegeliano e marxiano. Adottando "punti di vista eterogenei" i due pensatori non mancano tuttavia di cogliere entrambi il senso di misura e di "limitato" quale cifra di primissimo rilievo nella cultura greca (cfr. MM, p.89).
Tale principio di misura si caratterizza per il riferimento centrale alla dimensione dell'"umano", dell'uomo in quanto essere-umano. E' "la centralità dell'uomo con i suoi bisogni finiti" ad individuarsi quale "fulcro del mondo dei Greci" (MM, p.89).
E' attraverso questo passaggio fondamentale che si coglie il primo nucleo di senso del lavoro di Fusaro: ben lungi dall'evocare una "misura" puramente astratta, da re-inscriversi tutt'al più nella totalizzante metafisica dell'illimitatezza, il pensiero greco letto da Fusaro consegna un'idea (non troppo platonica, beninteso) di misura dotata non solo di concretezza, bensì pure di una forte componente concettuale orientata precisamente alla vera e propria materialità della quale l'umano in quanto tale si connota. 
Varrebbe già la pena ricordare in quest'ottica un monito di eterogenea provenienza, il "non di solo pane vivrà l'uomo" di sapore evangelico, che insieme ricorda sì come l'uomo si nutra in anima e in spirito del Logos, la divina Parola, il Verbum - e come, tuttavia, in linea con l'annuncio del Verbo incarnato, così come l'uomo non vive di solo pane, neppure, in terra, vive normalmente di sola Parola, ancorché Parola vera, viva, vivificante, divina. L'uomo che non vive di solo pane è quell'"umano" che, pure, ancorché nella sua essenza forse potrebbe vivere della pura Parola eterna divina, tuttavia è in quanto umano propriamente chiamato anche a vivere delle cose terrene, del pane, di ciò che la terra e i viventi incarnati offrono e chiedono. Non di pane soltanto: ma neppure senza
Questo umano veramente incarnato, ancorché non risolto nel proprio solo essere carne, entra presto in risonanza con la lettura della misura che pone l'umano al centro. 
Il cuore della comprensione per le citazioni che si sono proposte è dunque chiarito: ciò che mi importa cogliere, a questo punto della lettura di Minima Mercatalia, è un senso specifico di quei bisogni finiti (p. 89), "bisogni umani, per loro natura finiti e limitati" (p.91) che qui si sono evocati. 
La finitezza di cui si parla, in primo luogo, non si incentra sull'uomo in quanto tale, bensì, prima di tutto, sui suoi bisogni. Se il senso di misura e di limite risponde ad un pensiero ed una cultura a tutto tondo, riguardando dunque ovviamente aspetti ben più ampi, tuttavia è di primissimo piano, per il discorso di Minima Mercatalia, come tale aspetto entri in gioco nel cogliere le dinamiche riguardanti, prima ancora che l'uomo in quanto tale, l'uomo e-i-suoi-bisogni.
Nella citazione proposta (p.91) compaiono altri due termini di non poco interesse: "produzione" e "consumo". Veri campanelli d'allarme. Queste parole non hanno alcun senso - o hanno un senso pessimo - qualora si fraintenda (con dolo o colpa, in mala o in buona fede) la portata del termine "bisogno", "bisogni": portata del termine che è inseparabile dal concetto di misura e di limite che ci dà la possibilità di qualificare il bisogno in quanto limitato e finito.
Non è più mistero per nessuno che stia leggendo, probabilmente, dove stiamo andando a parare, avvicinandoci a concludere: un bisogno insaziabile, inesauribile, infinito è il contrapposto esatto di ciò che fa capo a ciò di cui si è fin qui parlato. Un bisogno sempre in aumento, in crescita, per soddisfare il quale non è mai sufficiente alcuna risorsa che non sia a sua volta capace di crescita, di rialzo, di ingrandimento a progressione esponenziale e a percentuali crescenti, è il contrapposto esatto del bisogno "umano" al quale si rimanda tramite il pensiero "greco". Un bisogno siffatto, in-umano, anti-umano, è tra i presupposti fondamentali - se non il fondamento - della contemporanea "economia", così come ci appare scorrere nella "nostra" cronaca e quotidianità e, senza esagerare, ma generalizzando appena, in tutto ciò che ci riguarda in quanto "uomini del nostro tempo". 
Per una lettura "a-caldo" come questa, basta qui. Ce n'è, da ruminare... 
Almeno fino al prossimo paragrafo. 
Buone letture. 




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